Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e i suoi limiti
Editeur : Bruno Mondadori, Milano, 2008, 179 p., € 18
Cette recension de Mario Cedrini est initialement parue dans L’Indice dei libri del mese, 26 (3), marzo 2009, p. 34.
Oltre l’individuo calcolatore
Agli economisti, scienziati sociali per eccellenza (o presunti tali), è assegnato non solo il compito di analizzare i processi di creazione della ricchezza e di spiegare il comportamento economico, ma anche quello di individuare il posto delle economie nella storia, e dunque d’indagare l’organizzazione economica delle società primitive – “selvagge”, appunto. Eppure la fragile “modernità” del progetto di Adam Smith prima – quello di contrapporre all’abbondanza della giovane società di mercato la scarsità sovrana delle società primitive, tutelando però l’inclinazione che Smith voleva naturale dell’uomo allo scambio – e degli antropologi formalisti poi, impegnati nella difesa del carattere universale delle categorie economiche del programma di Robbins, rivela forse la debolezza che colpisce la dismal science quando si affaccia all’esterno del “tutto si tiene” della teoria neoclassica, più che la difficoltà stessa d’inglobare processi storici di lunghissima durata e quesiti di natura antropologica. Un libro per gli economisti, quello di Marchionatti, che recupera i tanti sguardi occidentali sulle società primitive – da Montesquieu a Smith, passando per Defoe e il suo eroe borghese, a Marx – e ricostruisce in modo accurato e suggestivo la narrazione, per usare un concetto di Lyotard, che più tipicamente segnalerebbe l’ingresso della società contemporanea, se questa si fosse accorta delle tante storie che compongono il cammino non lineare dell’umanità, nell’era della postmodernità. Nonostante i contributi potenzialmente rivoluzionari degli antropologi, di Malinowski e Mauss, e poi di Polanyi e Sahlins (“la scoperta”, cioè, “delle economie primitive reali”, e le critiche polanyiane sull’assenza di considerazione per quell’ossatura istituzionale, non economica, della società che incorpora l’economia), la scienza economica appare incapace di rinnovare il suo apparato teorico di fronte alla sfida posta dai selvaggi.
È suggestivo il contrasto tra il nuovo sottotitolo e quello della precedente edizione del saggio (Loescher, 1985 ; ma per aggiornamenti, ampliamenti e revisioni, quello qui recensito è di fatto un libro nuovo), Una critica antropologica della scienza economica. Anche alla luce dei più recenti sviluppi della teoria economica, faticosamente giunta a mettere in discussione alcuni dei suoi assunti centrali (una razionalità limitata sostituisce quella olimpica, le asimmetrie informative e i costi di transazione complicano il quadro dello scambio e la formazione dei prezzi, il vento della complessità proveniente dal Santa Fe Institute scuote le rive di un’economia tradizionalmente restia al dialogo con le altre discipline umane), quella critica appare rinvigorita. Si pensi all’attualità, mai venuta meno, del pensiero di Polanyi ; alla riscoperta del dono di Mauss, oggi il dono del MAUSS (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali) di Alain Caillé e Jacques Godbout, nonché alle possibili implicazioni (per la nascente happiness economics, ad esempio) delle osservazioni di Sahlins sulle “strategie zen” di auto-limitazione dei bisogni attuate dalle economie dell’età della pietra. Storico del pensiero economico, autore – tra gli altri – di numerosi saggi sul contributo di Pareto alla definizione dell’ambito e del metodo della scienza economica, Marchionatti sottolinea il paradosso di una scienza economica che percepisce come proprio punto di forza la critica d’imperialismo nei confronti delle altre discipline sociali, e che si affanna a ricercare – con risultati traballanti – le risposte alle domande inevase poste da Polanyi e gli antropologi della scuola sostanzialista in quelle stesse sfide lanciate dall’interno alla robustezza dei suoi paradigmi (“vino vecchio in botti nuove”, quello delle recenti teorie di Douglass North e Richard Posner, incentrate rispettivamente sui costi di transazione e sui costi informativi).
È l’economia, si scopre alla fine del viaggio, ad aver bisogno delle altre discipline. Non si tratterà comunque d’importare, semplicemente, concetti sinora esclusi dall’ambito economico, come quello di dono, per condannare il paradigma dell’individuo calcolatore. E non perché il dono sia – così l’economista Philip Mirowski – l’anello debole della ricerca sul “non economico” nelle teorie eterodosse dello scambio ; ma perché la rivoluzione, nel senso inteso da Kuhn, avverrà più probabilmente quando, diremo con Mauss, avremo riposto l’homo oeconomicus dietro di noi. Quando cioè, approfondendo coraggiosamente la consapevolezza dei suoi limiti, l’economia rinuncerà alla pretesa di definire il “non economico” e porrà davvero le basi per un dialogo fruttuoso con le altre discipline umane. Nell’attesa, la coscienza del limite doterà gli economisti di uno sguardo nuovo ; sui selvaggi, certo ; ma anche – e dunque, direbbe Polanyi – sulla società contemporanea.