Il presente testo è la rielaborazione della comunicazione presentata al convegno “Culture del dono”, organizzato dal Centro Internazionale di Studi sul Religioso Contemporaneo, Casole Val D’Elsa (Siena), 12-13 maggio 2006. Un sentito ringraziamento e viva gratitudine al prof. Fabio Dei e al prof. A. Caillé.
«Celui qui a une seule goutte de votre sang,
ne manque pas de s’intéresser à vous» (proverbio arabo)«Il sangue non può essere indifferente al sangue» (proverbio marocchino) الدم ما يد وز الدم٠
1. La donazione del sangue quale forma di “dono”
La donazione del sangue rappresenta una forma di dono rivolto agli sconosciuti, che è determinato da peculiari caratteristiche che la differenziano dal tradizionale dono maussiano [1] : essa si fonda sull’anonimato e grazie ad esso può essere ricevuta; è lontano, dunque, da quegli scambi interpersonali fondati sulle relazioni sociali la cui costruzione rappresenta l’obiettivo stesso del dono tradizionale; mancano in essa i paradigmi socialmente coattivi; non è prevista alcuna restituzione né obbligo di reciprocità e per questo non si può parlare di dono né differente né differito: l’oggetto stesso dell’atto oblativo consiste sempre in una medesima sostanza, il sangue, che può essere ricevuto e, differente soltanto nella sua caratterizzazione biologica (per fenotipi), essere ri-donato; viene scardinata l’idea del tempo della reciprocità in quanto la donazione del sangue può rappresentare un unicum nella vita di un donatore (senza che ci sia stata l’azione della ricezione della medesima sostanza) oppure esser concepita in un’ottica di restituzione simbolica all’interno di una dimensione temporale altrettanto simbolica rispetto alla percezione di vicinanza o lontananza diacronica dal dono ricevuto; generalmente viene attivata, dunque, soltanto una delle tre azioni espresse dal dono maussiano, quella del “dare” e sembrano assenti le dinamiche performative e rituali che accompagnano il dono tradizionale.
La donazione del sangue è un dono unilaterale, svolto generalmente nella piena consapevolezza di un’assenza di restituzione, almeno immediata: non è prevista alcuna remunerazione né alcun ringraziamento diretto da parte del ricevente (a prescindere dal fatto che possano esistere delle forme di “ricompensa simbolica” come onorificenze di benemerenza, agevolazioni per visite sanitarie, analisi del sangue e controlli clinici specifici, permessi di lavoro retribuiti o, come affermano alcuni informatori donatori italiani, la speranza di poter ricevere, in caso di necessità, a propria volta, il sangue da altri donatori). La conseguente mancanza di obbligo alla restituzione dovrebbe limitare la circolazione di questo dono alle sole reti primarie come avviene per doni di altra natura [2] ; ciononostante, la donazione di sangue suole configurarsi più come “dono agli sconosciuti”, in cui il «sistema anonimo di circolazione tra estranei» [3] è reso possibile soltanto grazie all’intermediazione di un’organizzazione volontaria.
Tra le dinamiche culturali e sociali che potrebbero indurre all’atto oblativo (quali dinamiche legate al vissuto esperienziale e valoriale del donatore; finalità più “pratiche” quali la possibilità di godere di alcuni benefit o di sentirsi parte di un gruppo associativo [4]), Titmuss [5] rintraccia una forma di “altruismo” etico, sostenuto dal positivo intervento dello Stato che, contrapposto alla logica del mercato, incentiva la solidarietà dei cittadini anche verso sconosciuti. Di contro, secondo le più recenti posizioni del M.A.U.S.S. (Mouvement Anti-utilitariste dans les Sciences Sociales), in particolar modo dell’antropologo canadese J. T. Godbout, sarebbe criticabile, da un lato, l’idea di altruismo come sentimento, ovvero come motivazione psicologica, dall’altro, la posizione dello Stato che, al contrario di ciò che sostiene Titmuss, sembra discostarsi e, talora, «distruggere» la logica del dono [6].
2. Una dimensione convergente: la micro e la macro tradizione islamico-marocchina
Se finora è stato utile delineare le caratteristiche della donazione del sangue rispetto alla definizione classica del dono, un passo ulteriore, sostenuto da un’indagine etnografica, va fatto relativamente alla donazione del sangue di una comunità immigrata di Torino qual è quella marocchina. Per due ragioni è stata scelta come oggetto di studio questa comunità e questa città: in primo luogo, perché i marocchini rappresentano, nella città di Torino, la comunità di extracomunitari più numerosa [7] con un processo migratorio “storico” che risale ai primi anni Settanta e che, con dinamiche sociali e culturali differenti, è tuttora in corso [8] ; in secondo luogo perché, per la prima volta in tutta Italia, nel settembre 2005, un’associazione di immigrati maghrebini, soprattutto provenienti dal Marocco (Associazione Islamica per le Alpi), ha organizzato una donazione di sangue comunitaria richiedendo l’intervento dell’AVIS (Associazione Volontari Italiani Sangue) presso la propria sede. Questo, in breve tempo, ha generato un effetto a catena, per il quale un’altra associazione di immigrati marocchini (A.M.E.C.E) [9] ha riproposto la medesima iniziativa, sebbene con evidenti differenze organizzative e performative che in questo luogo non è possibile trattare.
L’indagine etnografica, svolta prevalentemente sul territorio torinese e, in chiave comparativa, in alcune località del Marocco [10], ha permesso di indagare, tra le altre categorie e tematiche prese in analisi, il significato del dono del sangue in quanto “dono”, sia nella cultura marocchina sia, sensu lato, nella religione musulmana.
Nel presente saggio, dunque, non si intende dar conto specificatamente dell’etnografia finora svolta, quanto piuttosto presentare una riflessione sul “dono” del sangue emersa da alcune ricerche empiriche e dall’analisi degli studi a carattere socio-antropologico relativi a società arabo-musulmane. Questa prospettiva è supportata dal fatto che l’identità dell’individuo marocchino, soprattutto nel processo migratorio, tende a sovrapporsi a quella del musulmano, sebbene non finisca mai per coincidere [11] : l’immigrato, prima che marocchino, si autodefinisce “musulmano”, come appartenente all’“universale” comunità musulmana (Umma). Anche se «la comunità islamica comprende tutti i fedeli musulmani indipendentemente da altre identità particolari, gli immigrati marocchini hanno però un ruolo egemonico all’interno della comunità islamica torinese, grazie alla loro prevalenza numerica e alle capacità organizzative che hanno saputo dimostrare» [12] : in tal senso, l’identità religiosa è percepita come un «habitus interiorizzato» che diviene, nella realtà del Paese d’accoglienza, quella che Clifford Geertz definiva «religious-mindedness», ovvero «una maggiore consapevolezza, una volontà cosciente di credere e di seguire precetti religiosi [che] sorge in primo luogo dall’incontro e dal confronto con sistemi ideologici e di credenza differenti» [13].
E’ possibile leggere, dunque, determinate categorie culturali tramite una sovrapposizione tra quella che potremmo definire la “macro” tradizione religiosa islamica, intendendo la religione come un sistema culturale [14], e la “micro” tradizione marocchina, presupponendo al suo interno, tuttavia, la presenza di poliedriche differenze relative soprattutto all’ortoprassi. Attraverso questa dimensione di plausibile convergenza, partendo, etnograficamente, dalla micro tradizione per giungere ad un’analisi epistemologica relativa alla macro tradizione, si intende qui trattare la categoria del dono, con specifico riferimento al dono del sangue [15].
3. Quale forma di dono per il Tabaroò bi addam ?
La donazione del sangue viene indicata da tutti gli informatori marocchini con l’espressione “tabarroò bi addam”, in cui “tabarroò” indica, allo stesso tempo, il verbo, il sostantivo e l’aggettivo dell’atto oblativo. “Tabarroò”, come donazione di una parte del corpo, è congiunto –secondo quanto gli informatori riferiscono- sempre ad una forma di dono (“hiba”) che si allontana per alcuni aspetti dalle caratteristiche del dono maussiano e si veste essenzialmente di connotazioni religiose: è da presupporsi il fatto che, nella cultura arabo-islamica, per hiba s’intenda un dono rivolto «intuitu personae» , ovvero realizzato per procurare un arricchimento ad una persona o ad un ente determinato, senza che ce ne sia un immediato bisogno e senza che si sappia chi sia il donatario. Non è prevista alcuna forma di contro-dono anzi, nella cultura marocchina e, si potrebbe dire, nella società arabo-musulmana sensu lato, la possibile presenza di esso è considerata umiliante e disonorevole: «la gratuité constitue donc un élément important du don. Plus le don est désintéressé, plus il est prestigieux» [16]. Il dono, così inteso, non può essere definito in base alla nozione di reciprocità, come per E. Benveniste che rintracciava in una radice indoeuropea del termine dono [...] la presenza implicita della reciprocità [17], quanto piuttosto in base alla nozione di razionalità, per la quale il dono si distingue da altre forme di scambio gratuito in virtù della razionalità che gli è propria. Esso si differenzia, prima di tutto, dal sacrificio (“hady”) che è l’offerta rituale rivolta alla divinità; in secondo luogo, è diverso dalla “sadaqa” e dalla “zakât”, compiute entrambe «intuitu Dei», pur con differenti logiche e dinamiche. La sadaqa, intesa come un’elemosina volontaria, libera e individuale, è rivolta a persone, anche sconosciute, che ne hanno immediato bisogno (poveri, mendicanti, ospiti); essa è «raccomandata come azione virtuosa che richiede la “buona intenzione” (niya) di modo che la mano sinistra ignori totalmente ciò che la destra ha dato» [18]. La “zakât”, invece, uno dei cinque pilastri della religione islamica, imposta dalla legge, è definita anche decima, in quanto consiste nella somma che ogni musulmano deve versare generalmente in aiuto a bisognosi e meno abbienti la mattina dell’Aid-al-Fitr (la rottura del digiuno nel mese di Ramadan), sebbene, nel contesto di immigrazione, come avviene anche a Torino, essa venga per lo più raccolta dai centri di preghiera e dai dirigenti delle moschee e destinata all’acquisto, all’affitto e al mantenimento di nuovi locali [19] . “Sadaqa” e “zakât” non rientrano nella categoria del “dono” antropologicamente inteso poiché non rivelano un ordine cerimoniale, non subiscono le regole della competizione e del prestigio, non devono essere caratterizzate dall’ostentazione e dalla solennità ma da un consapevole silenzio e da una pudica discrezione volta a salvaguardare “la faccia e l’onore del ricevente”; il gesto stesso di donare richiede eleganza, dolcezza, riservatezza [20]. Ciò avviene perchè, nella cultura marocchina ed arabo-musulmana sensu lato, l’assenza stessa dell’obbligo di reciprocità implica una rivalutazione dell’hau maussiano, non più concepito come psicologico e individuale quanto, piuttosto, sociale: «il faut figurer sur la liste des donneurs, se voir reconnaître socialement comme un donateur et pas toujours comme un receveur » [21], per poter godere del prestigio e dell’onore che questo comporta. Ciò significa che il donatore mantiene una presa sul donatario, non nel dovere di reciprocità quanto in una sorta di dipendenza in cui, secondo Bourdieu, « quelle que soit la chose offerte, elle possède le pouvoir d’attacher le donataire » [22] : il dono può essere assimilato al debito per la creazione di una sorta di violenza simbolica che «est présente dans la dette aussi bien que dans le don qui, malgré leur opposition apparente, on en commun le pouvoir de fonder la dépendance et même la servitude aussi bien que la solidarité, selon les stratégies qu’ils servent» [23]. L’oggetto donato porta con sé un’immagine di prestigio del donatore che non può essere rimborsato e che definisce un rapporto gerarchico tra chi dona e chi riceve: il termine hiba, infatti, sin dall’epoca preislamica, era inteso come «il trasferimento di una proprietà di una persona più elevata ad un’altra di livello sociale inferiore, termine applicabile ai doni di Dio agli uomini » [24]. In tal senso, la generosità diventa un meccanismo di innesco e di sostentamento delle distinzioni gerarchiche, fonte di onore e di prestigio, come anche Geertz rileva nelle sue ricerche a Sefrou, regione centro settentrionale del Marocco, e Jamous nelle società tradizionali del Rif [25]. Più un dono è disinteressato e prezioso, tanto più meriterà la ricompensa divina. Se, infatti, sul piano pratico ed immediato, la donazione del sangue implica l’assenza di qualsiasi forma di contro-dono, configurandosi, per questo, come hiba, in realtà, anche da quanto è emerso dalle testimonianze di donatori marocchini a Torino, essa aspira tuttavia, come gli altri due sistemi di donazione, zakât e sadaqa, al raggiungimento di un’hasana (sorta di ricompensa divina per ogni atto di generosità), al fine di raggiungere la bàrakah. Quest’ultimo, concetto polisemico, come affermano molti degli antropologi e degli scienziati sociali che hanno lavorato sulla cultura marocchina, è stato talora assimilato al mana melanesiano e all’orenda degli Irochesi, talora contrapposto a ciò che è haram, impuro, illecito, sporco, di solo appannaggio dei marabutti e dei santi, che Geertz definisce come «benedizione nel favore divino che si collega alla prosperità materiale, al benessere fisico ed alla soddisfazione corporale». Aspirare alla bàrakah significa «apprendere come la divinità s’insinua nel mondo, più esattamente, comprendere un modo di costruire l’esperienza umana (affettiva, morale, intellettuale), un’interpretazione culturale del mondo» [26]. Se l’onore implica un sistema di relazioni e di scambi tra uomini, la bàrakah è «questo altro ordine di valori che definisce i rapporti tra gli uomini e Dio […] La bàrakah non si situa unicamente sul livello del pensiero simbolico ma anche sul livello della pratica sociale», che implica la necessità di quotidiani comportamenti virtuosi ed etici (akhlaq) fondati sul rispetto, sulla generosità e l’onore sociale».
4. «Ti do una parte di me…»
Questa serie di valutazioni può indurre ad ipotizzare le dinamiche culturali e religiose che muovono un marocchino (e, si potrebbe dire, ogni musulmano) a donare sangue anche in un Paese straniero, considerando che la generosità viene reputata, nella cultura arabo-musulmana, una delle virtù principali che costituiscono la muru’ah (cioè la virtus dell’uomo completo) e che il dono tende ad avere sempre un carattere imperativo, come un dovere sociale: «L’uomo generoso è onorato da Dio e dagli uomini», egli «ha un’elemosina su ogni falange delle sue dita», recitano alcuni proverbi ed aneddoti arabi, in cui la falange simbolizzerebbe la capacità di donare [27] . Questa forma di generosità viene ulteriormente accresciuta ed apprezzata se si tratta di donare una parte di se stessi per salvare persone che si trovino in difficoltà o nel bisogno: «E fu così che Noi abbiamo prescritto per i figli di Israele che chiunque […] fa rivivere qualcuno è come se avesse fatto rivivere tutta l’umanità » [28] : ogni informatore marocchino, che abbia donato sangue, intervistato sia a Torino che in Marocco, ha citato, in primo luogo, questo versetto del Corano, menzionando inoltre (soprattutto gli informatori con un livello di istruzione medio-alto) diverse fatwe [29] da cui si evince che tutti loro, marocchini, ma prima ancora musulmani, soprattutto quando si trovano a vivere in Paesi non islamici, sono incitati a diventare proattivi nelle loro comunità, in particolare nelle forme di azione oblativa che tutelino e garantiscano il dono della vita.
Medesime finalità e dinamiche sembrano avere altre forme di donazione corporea che rientrano nel Codice islamico di Etica Medica, regolato dalla Shari’a, come il dono degli organi, di cui qui non è possibile trattare estesamente. Giova tuttavia sapere, in questo contesto, che, sebbene la legge marocchina n.16-98 del 25/8/99 consenta la donazione degli organi per soli scopi terapeutici e scientifici, la ricerca empirica da me finora condotta ha mostrato l’assenza quasi totale di una cultura della donazione degli organi sia in Marocco sia tra gli immigrati marocchini in Italia che affermano di poter ricorrere a quest’atto «estremo» solo dopo la morte ed esclusivamente per il beneficio di un familiare; non dono agli sconosciuti, come il dono del sangue è stato concepito e definito, ma dono (la cui essenza è ulteriormente messa in discussione) che circola nella sola rete primaria.
Il bioeticista Dariusch Atighetchi, confrontando le diverse legislazioni di tutti i Paesi musulmani, tra cui il Marocco, in materia di donazione di sangue e di organi, accanto alla “macro” tradizione religiosa islamica, propone una comparazione tra le due forme di donazione corporea, esponendo i principi etico-giuridici che le regolano ed il dibattito, tuttora in corso, relativo al confronto tra religioni e dono, soprattutto in un paese di immigrazione: sarebbe giusto, cioè, ricevere o donare un organo oppure sangue da o ad un non-musulmano? Egli sostiene, soprattutto sulla base della legislazione religiosa che «il criterio di necessità consente la trasfusione di sangue anche da non-musulmano secondo l’orientamento delle correnti giuridiche hanafita, shafi’ita e hanbalita, mentre i malikiti la consentono se non è disponibile un donatore musulmano. […] I medici propendono a trascurare qualsiasi distinzione tra musulmani e non sul tema delle trasfusioni di sangue in base al principio di necessità per la salvezza della vita umana » [30]. Ciò è stato confermato in larga parte dalla mia ricerca empirica tra gli informatori marocchini che vivono oggi a Torino, i quali si dicono pronti a donare sangue a chiunque ne abbia bisogno e a riceverne da musulmani e non musulmani: il confronto tra dono e religioni o, più universalmente, tra dono ed identità sollecita, dal punto di vista genuinamente antropologico, la visione dicotomica dello sguardo della/sull’alterità, da un lato, tra donatore italiano e donatore marocchino-musulmano, spesso identificato, come foriero di possibili malattie infettive o connotato da pregiudizi fortemente islamofobi e di uno sguardo “autoriflettente”, dall’altro, per il quale il donatore immigrato marocchino si rappresenta agli occhi del concittadino italiano come il potenziale terrorista, “l’altro” somaticamente e culturalmente rifiutato: «non so se un italiano accetta, cioè accetterebbe il mio sangue se vede che viene da un marocchino, e poi, figuriamoci, da un musulmano!» [31].
Altra cosa sarebbe riflettere sul dono del latte che, pur con caratteristiche e dinamiche differenti rispetto a quanto accadesse, soprattutto nelle regioni meridionali, con il baliatico nell’Italia premoderna [32], è tuttora praticato in molte zone del Marocco e, sebbene più sporadicamente, anche nel contesto di immigrazione. Il latte, nella cultura marocchina, si configura come metafora della felicità e dei legami di parentela, della purezza e della benedizione, alimento prelibato e destinato soprattutto agli eventi festivi da consumarsi con i datteri, simbolo dell’identità stessa marocchina, berbera in particolar modo. A differenza del dono del sangue, quello del latte è un atto oblativo sancito dalla legge e dalla religione islamica perché produce un effettivo legame uterino e, di conseguenza, specifiche proibizioni matrimoniali: il figlio di una donna che abbia allattato per più di cinque volte il bambino di un’altra diventa di quest’ultimo «fratello di latte» (ulid mma = figlio di mia madre): non solo i due fratelli non potranno mai sposarsi ma tutto ciò che è proibito dalla consanguineità (nasab) sarà proibito anche dalla parentela di latte (ridâ‘a) [33].
L’economia del presente saggio non permette di trattare a fondo il rapporto tra i due tipi di dono e delle conseguenze da esso prodotte; tuttavia, è da notare come il latte si collochi in un rapporto per così dire di superiorità rispetto al sangue, come affermano alcune tribù berbere nel sud est del Marocco: « agho ichqa ugar n-idamm », il latte è più forte del sangue [34] : il latte garantirebbe la trasmissione dell’identità agnatica e l’instaurazione di vere alleanze inscindibili lì dove si venga a creare una parentela di latte con l’incontro somatico di due soggetti (uno donante, attivo e l’altro ricevente, ugualmente attivo perché costretto a succhiare). Il sangue, dam, invece, secondo l’ematopoiesi arabo-musulmana, è considerato un umore vitale e generativo, come la bile, l’arabile e il flemma, veicolo di vita (quindi è vietato cibarsi della vita), fondamento primo della creazione dell’uomo «che è stato creato da un grumo di sangue» [35], detentore dei sentimenti in quanto, al contrario della concezione occidentale, dipende direttamente dal fegato (kabd) [36], luogo dell’amore e degli affetti, lì dove il cuore (qalb) è considerato sede della memoria e centro dell’intelletto. Veicolo delle caratteristiche dell’individuo e del gruppo di appartenenza, diventa attivo soltanto se e quando è versato. Il sangue è associato alla materialità del corpo nella sua dimensione spirituale e divina (il soffio, l’anima, nafs) e rappresenta la componente materiale, terrestre, esclusiva della persona. Carico di un’evidente, radicale dicotomia, principium vitae e principium mortis, esso è sostanza ora halal (lecita), quando è invisibile, contenuto nel corpo, perché rappresenta l’energia ed il veicolo della vita, ora haram (illecita, impura) soprattutto quando è visibile, fuoriesce dal corpo dell’essere vivente (emorragia, deflorazione, rituali sacrificali, macellazione della carne, mestruo femminile) e può entrare a contatto con il suolo dove dimorano i jnûn.
Sebbene il sangue assuma nella cultura tradizionale marocchina poliedrici caratteri simbolici e performativi [37] e muti significato nelle differenti situazioni regolate dalla religione islamica, esso sembra acquistare, tuttavia, un valore universalmente condiviso per donatori e non donatori, italiani e marocchini. Tutti gli informatori associano alla parola sangue, nella donazione, la vita, il calore, l’energia vitale. In tal senso, il sangue sembra condividere l’accezione halal perché invisibile, vale a dire, pur fuoriuscito dal corpo, passa attraverso delle sottili cannule e dei canali trasparenti che potrebbero essere associati simbolicamente alle vene, grazie alle quali il fluido non entra a contatto con l’esterno e con tutto ciò che può contaminarlo. L’immagine stessa della goccia di sangue è collettivamente presente come simbolo del dono, destinato alla salvezza di vite umane, di vite malate; un dono che è spesso, per questo, accostato all’immagine del profumo e del vento (che hanno anche la stessa radice, ruh) perché di esso ne gode soprattutto chi lo respira. Ciononostante da alcuni donatori incontrati sull’autoemoteca della medina di Rabat e di Casablanca e da alcuni non donatori immigrati, la goccia stessa del sangue viene spesso associata ad un’idea negativa di perdita e di debolezza (la paura di perdere le forze, di non riacquistare la quantità del sangue necessaria al proprio organismo) accanto ad un’ansia di potenziale pericolosità di contrarre malattie infettive o di non sapere la destinazione reale della sacca donata. Nella concezione islamica, e in base a quanto tutti gli informatori marocchini riferiscono, questo umore è vincolato da molteplici disposizioni giuridiche e teologiche prima di tutto perché si ritiene che esso appartenga a Dio (Allah) e come tale non può essere né venduto né comprato; l’uomo non può disporre di esso ma egli è un semplice ricettacolo di questa sostanza vitale che è di Dio e per Dio: «Tutto quello che facciamo di buono è per gli altri, no per soldi, assolutamente non si compra la vita! -afferma Mohamed, presidente dell’Associazione AMECE- Dietro gli altri c’è Dio, a… lui diamo il sangue».
5. Dall’hiba all’hadiya: etnografia della donazione
Attraverso un’osservazione partecipante svolta all’interno delle due associazioni marocchine che hanno organizzato le giornate di donazione a Torino e all’interno dei centri trasfusionali e di prelievo della città, la donazione del sangue sembra universalmente rappresentare l’aiuto che un individuo sano presta ad un malato. Nonostante questa apparente convergenza simbolica, palesi differenze sono emerse rispetto alle dinamiche della donazione di un donatore italiano e quello immigrato all’interno dei contesti analizzati, cioè in occasione di una donazione comunitaria appositamente organizzata da un’associazione [38] : l’immigrato, per la maggior parte, non è a conoscenza dei benefit che potrebbe avere in cambio della donazione (ciò che in precedenza è stato definito “ricompensa simbolica”); all’atto oblativo sono sempre legati elementi performativi e rituali che trasformano l’occasione in una festa, nella quale non manca un fastoso banchetto, la condivisione di momenti di preghiera e di alcune manifestazioni esteriori che non solo rinviano al significato prettamente religioso dell’atto oblativo (e al valore simbolico attribuito al sangue, come si è appena visto), ma denotano anche dinamiche rivolte ad una ricerca di integrazione e di legittimazione nel Paese di accoglienza (cartelli e locandine in duplice lingua che ripetono “Tabarroò bi addam - donazione del sangue”; il coinvolgimento, attraverso materiale pubblicitario, di istituzioni e figure rappresentative della realtà torinese come il console del Marocco, gli imam dei centri di preghiera; la volontà di diffondere la notizia alle associazioni di immigrati soprattutto connazionali sia per condividere l’iniziativa sia per dare esempio di organizzazione e di maggiore integrazione nella società di accoglienza). Integrazione sì, pur restando tuttavia all’interno delle dinamiche della propria identità: il luogo della donazione è sempre l’associazione di appartenenza e mai il centro trasfusionale; il banchetto (baghrir, frittelle di semola per la colazione, briouats, dolci triangolari con miele e mandorle, il tè alla menta, na’ na, latte, laban e datteri, tamra), la musica di sottofondo durante i prelievi e gli abiti indossati per l’occasione (spesso jellaba tradizionali riservati alle cerimonie festive) hanno una forte connotazione etnica, scritte in arabo anche nella scheda della donazione, coinvolgimento di mediatori culturali marocchini (donne per le donne, uomini per uomini) per facilitare il colloquio pre-selettivo con il medico: emblematica l’affermazione di un medico-prelevatore intervistato in occasione della giornata di donazione dell’Associazione islamica per le Alpi : «Mi sembrò, entrando in quell’associazione, di sentirmi estraneo a casa mia perché ero entrato nel loro mondo, di cui cercavo di capire le dinamiche; mi sembrava che ai loro occhi venivo visto come….insomma come uno “stregone occidentale”».
Alla luce di queste caratteristiche performative e simboliche dell’atto oblativo, che mantiene a tutti gli effetti i presupposti relativi al concetto di hiba di cui si è parlato, la donazione del sangue, come svolta tra la comunità marocchina di Torino, può essere accostata tuttavia più al concetto di hadiya, considerato il corrispettivo del “dono” maussiano (tradotto dagli informatori con il termine “cadeau”), sebbene manchi, delle tre azioni descritte da Mauss, sempre l’atto della reciprocità implicito in questa particolare tipologia di donazione. L’hadiya, inteso nella civiltà preislamica come uno sforzo da parte di una persona di livello sociale inferiore per entrare nelle buone grazie di uno più elevato (in Marocco il termine è impiegato per designare un dono solenne offerto al sovrano) è una marca di stima e di rispetto, di omaggio verso l’individuo (in questo caso, la società italiana) a cui si dona; è un mezzo per stabilire un legame, da un lato, sociale, dall’altro, potremmo dire, “iperindividuale” (dato l’anonimato del donatario), a cui si lega la consapevolezza di donare qualcosa di prezioso, di straordinario: il termine hadiya è connesso a tuhaf e lutaf che significano, oltre che “dono”, anche “meraviglie, dolcezze”; ci si priva di qualcosa di molto prezioso, ben sapendo che, prima o poi, sarà rigenerato o ricreato, esattamente come il sangue nel corpo umano. In questo senso, nella cultura specificatamente marocchina, il dono supera la dinamica del potlatch [39] -come distruzione e morte-, per legarsi alla credenza di una rinascita simbolica che è, prima di tutto, una rinascita sociale. All’hadiya è legata la grande festa, ihtifal [40], che accompagna l’atto oblativo, sempre determinata da una profonda connotazione religiosa come l’azione stessa del dono del sangue: il braccio che il marocchino offre al medico - prelevatore, ad esempio, è quasi sempre il destro, così come l’elemosina (in questo senso intesa come sadaqa), perché sia ben accetta, deve essere offerta con la mano destra. Ciò a conferma di quanto Herber, con Hertz e Mauss, hanno sostenuto sulla parte destra del corpo, in particolare le braccia e le mani, come «lato di Dio, il lato del giusto e della purezza» [41].
6. Dall’incompletezza sociale alla completezza simbolica: la “reciprocità incorporata”
Sia che si parli di donazione del sangue degli immigrati marocchini come hiba, nella sua accezione epistemologica più ampia, sia che s’intenda il tabarròo più vicino all’hadiya, relativamente agli aspetti performativi e rituali che lo connotano, in entrambi i sensi, dalle testimonianze degli informatori e dall’analisi delle dinamiche che accompagnano l’atto oblativo, il dono del sangue sembra essere, da una parte, connotato da una forte valenza religiosa, dall’altra, sembra configurarsi più come la spinta verso l’esterno ricercata dall’immigrato, attraverso il suo corpo, il suo sangue, all’interno di un contesto “altro” qual è quello di accoglienza. Questa spinta verso l’esterno, a sua volta, sottintende una duplice prospettiva: la ricerca della legittimazione nella costruzione di una comunità, seppur immaginata, in cui riconoscersi ugualmente cittadini “di sangue” e la volontà di gratitudine e di ringraziamento per l’ospitalità ricevuta. Una sorta di debito simbolico, risarcito con e attraverso il sangue: «L’Italia ci dà, noi vogliamo ridare qualcosa. Cosa è meglio se non il nostro sangue, che è sacro, che è vita?» [42]. In questo senso, il dono non è mai privazione ma arricchimento, “in-tensione” verso l’altro e verso Dio, un’estensione di se stessi all’esterno: «ci si dà donando e, se ci si dà, è perché ci si deve –sé e i propri beni- agli altri» [43]. Esso viene sentito come slancio verso l’alterità, come continuazione di se stessi contro l’isolamento sociale ed individuale, che tenta di soddisfare un’incompletezza sociale e culturale attraverso un processo antropo-poietico [44] rivolto all’auspicata acquisizione di una completezza “fisicizzata”, di un’incorporazione simbolica nella quale convivono l’esperienza del corpo nel mondo e della sua rappresentazione [45]. Il termine stesso waçala che significa “donare”, inteso come ogni atto oblativo, comprese le forme di “sadaqa” e di “zakât”, indica nello stesso tempo “legare, unire”, maggiormente se si tratti di una sostanza, umore corporeo, quale è il sangue. In tal senso si viene a delineare una fisiologia simbolica del sangue nell’atto oblativo, che esprime e costruisce il rapporto fra il corpo e il mondo esterno, sociale ed evenemenziale. Nella donazione del sangue dell’immigrato marocchino non c’è da rintracciare tanto quella «tattica di resistenza» alle pratiche di subordinazione della società di accoglienza né una “controffensiva” alle dinamiche di stigmatizzazione dei migranti come «nemici simbolici» ideali per la formazione di un’identità etnica [46], quanto piuttosto un processo in duplice prospettiva: mantenere fede ad una religione che s’impronta su un altruismo che potremmo definire “comunitario”, come recita un hadith: «Danno ai loro fratelli la preferenza verso se stessi benché abbiano essi stessi bisogno di ciò che donano» ed auspicare una forma di integrazione/completezza sociale e culturale che è, prima di tutto, un atto di reciprocità per ciò che si è ricevuto dal Paese di accoglienza. In questo è evincibile il carattere alienante del dono che, se nella società preislamica consentiva di affrancare uno schiavo [47], permetterebbe ad un immigrato di ambire ad una cittadinanza, seppur simbolica, nel Paese in cui si trova a vivere.
Da queste osservazioni, rispetto a quanto descritto all’inizio, la donazione del sangue della comunità marocchina sembra, secondo una prospettiva prevalentemente antropologica, da un lato, ricalcare alcuni tratti che contraddistinguono il dono del sangue dal dono classicamente inteso; dall’altro, essa sembra accostarsi a quest’ultimo per quelle caratteristiche attribuibili più al piano religioso-culturale che prettamente sociale, in un’ottica di ri-negoziazione e ri-elaborazione delle pratiche identitarie.